Cueva de los Tayos, la collezione di Padre Crespi – The collection of Father Crespi


Foto, 3 video, link, pubblicazioni in Italiano ed in Inglese sull’affascinante e misteriosa Biblioteca Metallica   
Photos, 3 videos, link, articles in Italian and English about the amazing and mysterious Metal Library




 








Tayos Gold Library – The Odyssey of Stan Hall

Padre Carlo Crespi, il vero scopritore del tesoro della Cueva de los Tayos
(da www.yurileveratto.com, Yuri Leverratto, Copyright 2010)
Nella regione amazzonica ecuadoriana chiamata Morona Santiago esiste una caverna molto profonda, detta in spagnolo Cueva de los Tayos. La caverna, che si trova ad un’altezza di 800 metri sul livello del mare, viene denominata Tayos, dal nome di caratteristici uccelli quasi ciechi che vivono nelle sue profondità. Gli indigeni Shuar o Jibaros (che avevano l’usanza di rimpicciolire il cranio dei nemici uccisi in battaglia), che vivono nelle vicinanze della grotta, usavano cibarsi di detti volatili. La più antica notizia della caverna risale al 1860 quando il generale Victor Proano inviò una breve descrizione della grotta al Presidente dell’Ecuador di allora, Garcia Moreno. Solo nel 1969 però, un ricercatore ungherese naturalizzato argentino, di nome Juan Moricz, esplorò a fondo la caverna, trovando molte lamine d’oro che riportavano delle incisioni arcaiche simili a geroglifici, statue antiche di stile mediorientale, e altri numerosi oggetti d’oro, argento e bronzo: scettri, elmi, dischi, placche. Il ricercatore ungherese fece anche uno strano tentativo di ufficializzare la sua scoperta, registrando i suoi ritrovamenti nell’ufficio di un notaio di Guayaquil, il giorno 21 luglio 1969, ma le sue richieste non furono accolte. Nel 1972 lo scrittore svedese Erik Von Daniken diffuse nel mondo il ritrovamento del ricercatore ungherese. Quando la notizia dello strano ritrovamento di Moricz si sparse nel mondo, molti studiosi ed esoteristi decisero di esplorare la caverna con spedizioni private. Una delle prime e più ardite spedizioni fu quella condotta nel 1976 dal ricercatore scozzese Stanley Hall alla quale partecipò l’astronauta statunitense Neil Armstrong, il primo uomo che mise piede nella Luna, il 21 luglio 1969. Si narra che l’astronauta riferì che i tre giorni nei quali rimase all’interno della grotta furono ancora più significativi del suo leggendario viaggio sulla Luna. All’impresa prese parte lo speleologo argentino Julio Goyen Aguado, amico intimo di Juan Moricz, dal quale aveva avuto delle precise indicazioni sull’esatta localizzazione delle placche e lamine d’oro intagliate. Sembra che Goyen Aguado, su indicazione di Moricz, che non partecipò alla spedizione, abbia depistato Stanley Hall, senza permettere agli anglosassoni di appropriarsi degli antichi reperti d’oro. Altre versioni della storia indicano invece che gli anglosassoni razziarono parte del tesoro, trasportandolo illegalmente al di fuori dell’Ecuador. Secondo altri ricercatori il vero scopritore degli immani tesori archeologici della Cueva de los Tayos non fu l’ungherese Moricz, ma bensì il prete salesiano Carlo Crespi (1891-1982), nativo di Milano. Crespi avrebbe indicato a Moricz come entrare nella caverna e come trovare la giusta via nel labirinto senza fondo situato nelle sue profondità. Carlo Crespi, che giunse nella selva amazzonica ecuadoriana nel lontano 1927, seppe conquistarsi nel tempo la fiducia degli autoctoni Jibaro, e si fece consegnare, nel corso di decenni, centinaia di favolosi pezzi archeologici risalenti ad un epoca sconosciuta, molti di essi d’oro o laminati d’oro, spesso intagliati magistralmente con arcaici geroglifici che, a tutt’oggi, nessuno ha saputo decifrare. A partire dal 1960 Crespi ottenne dal Vaticano l’autorizzazione ad aprire un museo nella città di Cuenca, dove era ubicata la sua missione salesiana. Nel 1962 ci fu un incendio, e alcuni reperti furono perduti per sempre.
Crespi era convinto che le lamine e le placche d’oro da lui trovate e studiate, indicassero senza ombra di dubbio che il mondo antico medio-orientale antecedente al diluvio universale fosse in contatto con le civiltà che si erano sviluppate nel Nuovo Mondo, che erano già presenti in America a partire da sessanta millenni fa (vedi mia intervista all’archeologa Niede Guidon). Secondo Padre Crespi, gli arcaici segni geroglifici che erano stati incisi o forse pressati con degli stampi, non erano altro che la lingua madre dell’umanità, l’idioma che si parlava prima del diluvio. Le conclusioni di Carlo Crespi erano stranamente simili ad altri ricercatori dello stesso periodo, come l’esoterico peruviano Daniel Ruzo (studioso di Marcahuasi), il medium statunitense G.H.Williamson, l’archeologo italiano Costantino Cattoi, o il ricercatore italo-brasiliano Gabriele D’Annunzio Baraldi (che documentò a fondo la Pedra do Ingá). Verso la fine degli anni 70’ del secolo scorso Gabriele D’Annunzio Baraldi visitò a lungo Cuenca, dove conobbe sia Carlo Crespi che Juan Moricz. In quell’occasione Carlo Crespi confidò all’italo-brasiliano che la Cueva de los Tayos era senza fondo e che le migliaia di diramazioni sotterranee non erano naturali, ma bensì costruite dall’uomo nel passato. Secondo Crespi la maggioranza dei reperti che gli indigeni gli consegnavano provenivano da una grande piramide sotterranea, situata in una località segreta. Il religioso italiano confessò poi a Baraldi che, per timore di futuri saccheggi, ordinò agli indigeni di coprire interamente di terra detta piramide, in modo che nessuno potesse mai più trovarla. Secondo Baraldi gli arcaici geroglifici incisi nelle lamine d’oro della Cueva de los Tayos, richiamavano all’antico alfabeto degli Ittiti, che secondo lui avevano viaggiato e parzialmente colonizzato il Sud America diciotto secoli prima di Cristo. Baraldi notò che in molte placche e lamine d’oro erano ricorrenti vari segni: il sole, la piramide, il serpente, l’elefante. In particolare la placca dove venne incisa una piramide con un sole nella sua sommità venne interpretata da Baraldi come una gigantesca eruzione vulcanica che avvenne in epoche remote. Quando Carlo Crespi morì, nell'aprile del 1982, la sua fantasmagorica collezione d’arte antidiluviana fu sigillata per sempre, e nessuno poté mai più ammirarla. Vi sono molte voci sulla sorte dei preziosissimi reperti raccolti pazientemente durante lunghi decenni dal religioso milanese. Secondo alcuni furono semplicemente inviati in segreto a Roma, e giacerebbero ancora adesso in qualche cavó del Vaticano. Altre fonti proverebbero che il Banco Centrale dell’Ecuador abbia acquisito, per la somma di 10.667.210 $, circa 5000 pezzi archeologici in oro e argento. Il responsabile del museo del Banco Centrale dell’Ecuador, però, Ernesto Davila Trujillo, smentì categoricamente che l’entità di Stato acquisì la collezione privata di Padre Crespi. A prescindere dalla localizzazione fisica attuale dei reperti archeologici di Padre Crespi, restano le fotografie e le numerose testimonianze di molti studiosi a prova della loro veridicità. Sembra quasi che qualcuno abbia voluto occultare i fantastici pezzi archeologici collezionati e studiati dal religioso milanese. Perché? Sicuramente la prova che popoli antidiluviani, e altri successivi al diluvio, ma prettamente medio-orentali, abbiano visitato il bacino del Rio delle Amazzoni in tempi così remoti e vi abbiano lasciato una tale quantità di meravigliosi reperti, è una verità che potrebbe essere scomoda. Molti storici convenzionali hanno descritto Padre Crespi come un impostore o semplicemente un visionario, che ha mostrato come autentiche delle lamine d’oro che erano semplicemente dei falsi o delle copie di altre creazioni artistiche medio-orientali. La mia opinione sugli immani tesori della Cueva de los Tayos è che sono autentici e provengono dal Medio-Oriente.
Bisogna però distinguere tra alcuni reperti dove sono stati intagliati degli apparenti geroglifici e altri che sono rappresentazioni d’arte Sumera, Assira, Egizia, Ittita. Sono convinto che prima del diluvio i popoli che vivevano nella terraferma corrispondente all’attuale piattaforma continentale del continente africano (poi sommersa), avessero frequenti scambi con i popoli che, già da sessanta millenni prima di Cristo, vivevano nell’attuale Brasile. La Pedra do Ingá, studiata a fondo dal ricercatore Baraldi, e da me descritta nel gennaio del 2010, testimonia che popoli antichissimi rappresentarono un evento per loro importantissimo (forse il diluvio universale?), utilizzando un arcaico metodo di scrittura (una forma di nostratico?), dopo essere giunti nell’odierno Brasile in seguito ad un evento fortuito. E’ utile ricordare inoltre, anche l’arcaico alfabeto inciso nella statuetta (che proveniva dall’interno del Brasile), di basalto nero che fu donata all’esploratore Percy Fawcett dallo scrittore Rider Haggard. Detto alfabeto è molto simile ai segni incisi nelle lamine d’oro della Cueva de los Tayos. In questo senso si possono individuare e descrivere alcune iscrizioni arcaiche dei reperti trovati nella Cueva de los Tayos come facenti parte dell’idioma nostratico. Per quanto riguarda invece altri reperti, di chiara derivazione medio-orientale post-diluviana, ritengo opportuno considerarli come resti di varie spedizioni occasionali che furono attuate a partire dal terzo millennio prima di Cristo dai Sumeri e in seguito da Egizi, Fenici e Cartaginesi. Queste mie conclusioni non sono solo supportate dal fatto che resti di foglia di coca furono travati nelle mummie egizie, ma soprattutto dai recenti ritrovamenti nell’altopiano andino come la Fuente Magna e il monolito di Pokotia. Resta il mistero del perché tutto quell’immane tesoro sia stato ammassato nella Cueva de los Tayos e nei labirinti che si trovano nelle sue profondità. A mio parere è possibile che limitati gruppi di discendenti di anti-diluviani, sopravvissuti all’enorme catastrofe, una volta sbarcati in Sud America, abbiano voluto salvare le loro preziosissime reliquie, nascondendole in seguito in una grotta ritenuta da loro sicura. Per quanto riguarda invece i popoli medio-orientali post-diluviani, mi riferisco in particolare ai Sumeri, Egizi, Fenici e Cartaginesi, è possibile che ogni gruppo viaggiasse con particolari insegne della loro stirpe e della loro origine, che nel corso dei secoli si persero nelle Ande (come il caso della Fuente Magna). In seguito gli antenati degli indigeni Suhar  ammassarono dette reliquie nella Cueva de los Tayos ritenendoli oggetti sacri che dovevano per forza essere raccolti in un luogo ritenuto magico dalla loro tradizione.

Il mistero della biblioteca metallica di Padre Carlo Crespi
(da www.yurileveratto.com, Yuri Leverratto, Copyright 2010)
Il Padre italiano Carlo Crespi (1891-1982), era giunto nella selva amazzonica ecuadoriana nel 1927.
Con il tempo aveva ammassato, presso la sua missione salesiana di Cuenca, una fantasmagorica collezione di manufatti antichi d’inestimabile valore storico e archeologico: statuette d’oro di stile mediorientale, numerosi oggetti d’oro, argento o bronzo: scettri, elmi, dischi, placche, e molte lamine metalliche che riportavano delle incisioni arcaiche simili a geroglifici, la cosiddetta “biblioteca metallica”. Tra le varie lamine, una di esse era lunga circa 20 pollici e riportava 56 segni stampati, come fosse un alfabeto più antico di quello dei Fenici. Padre Carlo Crespi era molto anziano quando fu girato il video di Stanley Hall, che riporto nel corpo articolo, e forse era anche confuso, ma nell’ultima parte del video (esattamente nel punto: 4 min. e 18 sec), si vede benissimo che la biblioteca metallica, da lui gelosamente custodita, era reale. Osservando al rallentatore l’ultima parte del video, dove si vedono le placche metalliche, si nota che vi sono impressi dei segni o una sorta di geroglifici, come se si fosse voluto rappresentare la storia di un popolo. Carlo Crespi ha sempre dichiarato a tutti i suoi intervistatori che tutti i reperti del suo museo, gli erano stati consegnati, nel corso degli anni, da indigeni Suhar, che a loro volta li avevano raccolti nella Cueva de los Tayos. Ecco una sua dichiarazione, ripetuta più volte a vari ricercatori:
Tutto quello che gli indios mi hanno portato dalla caverna risale a epoche antiche, prima di Cristo. La maggioranza dei simboli e di alcune rappresentazioni preistoriche risalgono ad epoche antecedenti il Diluvio.

Padre Carlo Crespi
Il religioso italiano sosteneva che i reperti da lui custoditi fossero d’origine antidiluviana e fossero stati nascosti nella caverna da discendenti di popoli mediorientali che erano scampati al diluvio.
Molte persone che mi hanno contattato durante questi anni, hanno argomentato che il “tesoro” di Padre Carlo Crespi fosse costituito da falsi o, da pezzi veri, che però non provenivano dalla Cueva de los Tayos.
E’ una possibilità, però a mio parere qualcosa di vero in questa storia della Cueva de los Tayos c’è, per vari motivi. Innanzitutto il Padre Carlo Crespi, non ha mai tenuto conferenze sulla sua collezione e non si è mai fatto pubblicità allo scopo di guadagnarci soldi o fama, anzi era piuttosto schivo e controverso.
Che bisogno avrebbe avuto quindi di inventarsi tutto e raggruppare una montagna di manufatti falsi?
C’è poi la possibilità che sia stato ingannato da astuti artigiani: a tale proposito lo scrittore Richard Wingate, scrive: E’ stato detto che i reperti di Padre Crespi siano dei falsi che gli furono consegnati da indigeni. Però in seguito i segni scolpiti in alcuni suoi reperti sono stati individuati come geroglifici egizi, ieratico egizio, punico e demotico.Come avrebbero potuto, gli indigeni Suhar o improvvisati artigiani della zona di Cuenca, riportare delle iscrizioni in lingue antiche, nei reperti che consegnavano a Crespi? E' vero che tutti o alcuni dei suoi manufatti potrebbero essere stati veri, ma non provenienti dalla Cueva de los Tayos, ma anche in questo caso perché lui avrebbe divulgato che gli furono consegnati dagli indigeni Suhar? Non avrebbe guadagnato nulla dicendo ciò. Alcuni reperti di Crespi sono stati analizzati da riconosciuti archeologi: per esempio il professor Miloslav Stingi, membro dell’Accademia delle scienze di Praga, dopo aver analizzato alcuni reperti di Padre Crespi disse: Il sole è spesso parte centrale di alcuni reperti incaici, ma l’uomo non è stato mai messo sullo stesso piano rispetto al sole, come vedo in alcuni di questi reperti. Vi sono rappresentazioni di uomini con dei raggi solari che si dipartono dalle loro teste, e vi sono uomini rappresentati con punti, come fossero stelle uscendo da loro stessi. Il simbolo sacro del potere è sempre stato la mente, ma in questi reperti la mente o il capo, è rappresentata simultaneamente come il sole o una stella. Con questa dichiarazione Stingi, propende per sostenere che alcuni dei reperti di Crespi non hanno una derivazione indigena (che sia andina o amazzonica), ma hanno origine differente. Osservate con attenzione la placca d’oro che riporto qui sotto: è una piramide con alla sua sommità un sole. Molto stranamente i gradini della piramide sono 13 e il sole posto nella sua sommità ricorda l’occhio onniveggente. Ai lati vi sono poi due felini, due elefanti e due serpenti. Alla base della piramide vi sono le lettere di un alfabeto arcaico, che secondo alcuni ricercatori sarebbe un proto-fenicio. La piramide, il sole posto alla sua sommità e i 13 gradini sono indubbiamente simboli massonici. Sappiamo che la Massoneria ha origini che si rimontano alla notte dei tempi, e pertanto questa potrebbe essere una placca aurea di culture medio-orientali. Notiamo inoltre che gli elefanti non sono presenti in Sud America (se non prima del diluvio, i mastodonti, che si sono estinti con gli altri animali della megafauna nel 9500 a.C.), e questo rafforza la tesi che l’oggetto in questione abbia un’origine non americana. Per quanto riguarda i felini, essi non sono puma o giaguari (tipici delle culture andine e amazzoniche), ma gatti, animali sacri dell’antico Egitto. Il serpente poi è un simbolo universale adorato in tutte le culture del mondo antico, come immagine del rigenerarsi della vita, e metafora dell’utero della donna (sta, infatti, negli anfratti dei fiumi).
Un ultimo particolare: nel lato sinistro rispetto al sole vi sono 4 piccoli circoli, mentre nel lato destro vi sono 5 piccoli circoli. Si tratta dei 9 pianeti del sistema solare? Anche in questo reperto si possono notare alcuni particolari importanti: Innanzitutto ritroviamo la piramide, questa volta formata da 5 livelli. Nei primi tre vi sono dei simboli di un alfabeto antico, non decifrato. Quindi un elefante, simbolo non tipico delle culture sud-americane, e sulla cima un sole con dieci raggi. La biblioteca metallica è stata mai vista al di fuori del fantasmagorico museo di Padre Carlo Crespi? In effetti ci sono state altre persone che affermarono di essere state all’interno della Cueva de los Tayos e aver visto con i loro occhi altre lamine della biblioteca metallica, primo tra tutti l’ungherese naturalizzato argentino Juan Moricz, che dichiarò di aver portato a termine una spedizione nel 1965 guidato da indigeni Suhar. Nella seconda spedizione, guidata da Juan Moricz nel 1969, alla quale partecipò Gaston Fernandez Borrero, non furono però trovate alcune tracce della biblioteca metallica, ma solo stalattiti e stalagmiti. Dopo la seconda spedizione Juan Moricz fece un tentativo di ufficializzare la sua scoperta, il 21 luglio 1969, dichiarando di fronte ad un notaio di aver individuato nella caverna, oggetti importanti dal punto di vista archeologico. Varie persone mi hanno scritto sostenendo che Moricz fosse in mala fede, e che lui, dopo aver visto la collezione di Carlo Crespi e aver ascoltato la sua probabile provenienza, pensò di divulgare la storia che aveva trovato la biblioteca metallica all’interno della caverna, per ottenerne soldi e fama. Anche questa è una possibilità, considerando che Moricz non mostrò mai nessuna fotografia dei suoi ritrovamenti. Ci sono però altre dichiarazioni, come quella del maggiore Petronio Jaramillo, tratta dal libro “Oltre le Ande” di Pino Turolla. Jaramillo, che dichiarò di essere entrato nella caverna nel 1956, descrisse alcuni manufatti antichi e le famose lamine metalliche, ma anche in questo caso non ci sono fotografie e pertanto si può concludere che la biblioteca metallica è stata vista e fotografata solo ed esclusivamente nel museo di Padre Carlo Crespi. Quando Padre Carlo Crespi morì, nel gennaio del 1982, la sua meravigliosa collezione d’arte mediorientale (e ntidiluviana), fu portata via dal museo di Cuenca, verso una destinazione ignota. Alcune voci sostennero che il Banco Centrale dell’Ecuador abbia acquisito, il 9 luglio 1980, per la somma di 10.667.210 $, circa 5000 pezzi archeologici in oro e argento dalla missione salesiana. Il responsabile del museo del Banco Centrale dell’Ecuador, però, Ernesto Davila Trujillo, smentì categoricamente che l’entità di Stato acquisì la collezione privata di Padre Crespi. Secondo altre persone i reperti di Padre Crespi furono inviati in segreto a Roma, ed oggi si troverebbero in qualche cavò del Vaticano. A questo punto sorge una considerazione: se i reperti di Padre Carlo Crespi, inclusa la biblioteca metallica, erano dei falsi, perché sono stati fatti sparire?
Se fossero stati dei falsi sarebbero stati venduti all’incanto in qualche mercatino di periferia, a poco prezzo.
Assumendo pertanto che la maggioranza di quei reperti erano veri, ma che non provenissero dalla Cueva de los Tayos, perché sarebbero stati custoditi proprio nella missione salesiana di Padre Carlo Crespi? Che bisogno avrebbe avuto il legittimo proprietario (l’ordine dei Salesiani? Il Vaticano?), d’inviarli a Cuenca?
Forse per nasconderli? In questo caso però Carlo Crespi non li avrebbe mai mostrati a nessuno. Come si vede il mistero della biblioteca metallica di Padre Carlo Crespi, è ancora attuale: nessuno può essere certo della sua reale provenienza, e tantomeno della sua attuale ubicazione. Il fatto che sia stata occultata potrebbe essere una prova non solo della sua autenticità, ma anche del suo inestimabile valore e forse, del suo scomodo significato.

The Crespi Ancient Artifact Collection of Cuenca Ecuador
(By Glen W. Chapman, November 1998, from http://chapmanresearch.org/)
Father Carlo Crespi, who comes from Milan, has lived in the small town of Cuenca, Ecuador, for more than 50 yeam. He is a priest of the Church of Maria Auxiliadora. Crespi was accepted by the indians as a real friend. They used to bring him presents from their hiding places. Finally the father had so many preci6us objects stored in his house and the church that one day he received permission from the Vatican to open a museum. This museum in the Salesian School at Cuenca grew and grew Until in 1960 it was one of the biggest museums in Ecuador, and Crespi was recognized as an archaeological authority. But he has always been a rather embarrassing servant of his church, for he asserts vehemently that he can prove that there was a direct connection between the Old World (Babylon) and the New World (pre-Inca civilizations); and that goes right against prevailing opinion. On 20th July 1962 there was an act of arson and the father's museum was burnt down. What Father Crespi managed to salvage was housed in two long narrow rooms, which were in a terrible muddle Brass, copper, sheet-metal, zinc, tin and stone and wooden objects and
in the midst of them all pure gold, sheet-gold, silver and sheet -silver. Eric Van Danken in His book Gold of
The Gods says of this Treasure “Let the Vatican grail guardian Father Crespi of Cuenca be the key witness to the pre-Christian origin of the metal treasures. He said to me: ‘Every' thing that the Indians brought me from the tunnels dates to before Christ. "Most of the symbols and prehistoric representations are older than the Flood.’ “Father Crespi has partially stacked his metal plaques by motifs, for example those with pictures of pyramids. I took a close look at more than 40 and some of them are reproduced in this book. All the pyramid engravings have four things in common: a sun, but more frequently several suns, is depicted above the pyramid; snakes are always flying next to or over the pyramid; animals of various kinds are always present….“Professor Miloslav Stingi is the leading South American scholar in the Iron Curtain countries; he graduated in the ancient civilizations of America. today he is a member of the Academy of Sciences at Prague and author of archaeological and ethnological books. In versunkenen Mayasta~dten (1971), for example, is highly acclaimed. Professor Stingl, who was a guest in my house, saw the photographs I had taken at Cuenca. ‘If these pictures are genuine, and everything indicates that they are, because no one makes forgeries in gold, at any rate not on such a large scale, this is the biggest archaeological sensation since the discovery of Troy. Years ago I myself supported the view that the Incas had no writing in the alphabetical sense of the word. And now I am faced with Inca writing. To be able to give a precise scientific verdict I should have to subject each plaque to a detailed and lengthy examination, and compare each one with material already available. For the moment I can only say that I am dumbfounded. The sun was often part of the scenery in known Inca engravings, but man was never equated with the sun, as I see time and again in these photographs. There are representations of men with sun's rays round their heads and there are men depicted with star points coming from them. The symbol of holy power has always been the head. But in these pictures the head is simultaneously sun or star. That points to new direct connections.’” J Golden Barton in 1998 tells of a visit see Father Crespi with Dr. Paul Chessman from BYU and others in the late 1970’s. He writes: “High in the Andes mountains of Ecuador lies beautiful Cuenca, a peaceful city with red Spanish tile roofs and worn cobble stone streets. Townspeople go about their daily business happily trading with each other and the native Indians who populate the hills and
valleys surrounding the village. The Indians speak the tongue of their Quechua" ancestors, who watched
the sun rise over the Amazon hundreds of years before. With weathered and rosy cheeks they radiate a
simplicity of harmony with the rugged mountains where they have worked time out of mind. The men of
the tribe wear a single long braid of hair down their back underneath a Panamanian hat. Men, women and
children are dressed in the same black and brown earth-tone cloth, edged with bright colored trim. Each
shuffle along the paths long known by their forefathers, carrying them back and forth from village to
village. Not many tourists travel this way and the service is unrushed but thorough. “A few blocks from the center of the village stands a Catholic "College of Salesino." Young men and women from prosperous families attend this secondary school, its classrooms facing a clay and terrazzo tiled courtyard. Entering through a side door, we found ourselves in a small open-air enclosure facing stately, hand-carved wooden gates. A friendly young man bid us enter through old wooden doors and ushered us into a private chamber. A few moments later, a bearded, monkish-looking man with twinkling eyes and a benign smile arrived and embraced Dr. Cheeseman. Although an octogenarian, he appeared in lively good health, despite his quaking robes which betrayed a shaky hand. We had heard that he was senile, but his personal behavior only radiated complete mental competence. So this was Father Carlos Crespi, Ecuador's unlikely focus of a unique archaeological controversy that continues to baffle everyone who has heard about it.
“He led us into an inner court of the school yard, where old Spanish wooden doors faced inward,
and the oft-scrubbed floors gleamed with sunlight bouncing off the polished terrazzo. We were unprepared
for what was to come. Father Crespi took a large key from a ring that hung from a braided belt around his
robe, then moved to an obscure wooden door and turned the lock. Together with a single helper, he
disappeared into the dark room. Both soon reappeared with a large piece of metal that had been molded and hammered into a long sheet. It looked like it might be made of gold. The sheet was inscribed with a curious artwork beyond identification. “Next, they dragged something from the darkness too large to be carried, and only with strenuous exertions were they able to lean it against the stucco wall. It stands twenty-two inches high and about seven inches wide its weight must have been prodigious. I reached my hand to touch the object and noticed it featured a dark covering, as if it had been painted. At first, I supposed it must have been made of lead, because it was soft and almost pliable. Then the nails of my fingers bit into the body of the figure through the paint and the gleam from the tell-tale scratch left
no doubt that it was made of pure gold. Our cameras began to click, and in the excitement Father Crespi talked excitedly, hardly stopping to breathe. He was our enthusiastic instructor, showing us each new piece as though it had just been brought to the light of day for the first time. “What other wonders did his black vault contain, we wondered? The old man's nimble fingers joined the ends of two barren electric wires and the chamber was instantly revealed in the radiance of an incandescent globe. The gleam of gold, silver, and bronze everywhere added to the brightness of its interior. Shelves of dusty, worn ceramics, starry-eyed idols posturing in hideous stances or strange proportions. Stacked from floor to ceiling were hundreds of large cardboard pieces on which were wired metal bracelets, earrings, nose rings, and necklaces, some untarnished by time. Hide-scrapers, tools, implements of war, spears, axes, clubs, of wood, metal and stone were stacked everywhere. Father Crespi's mysterious room seemed overburdened with the treasures of an unknown antiquity. It literally over-flowed with bizarre artifacts, many wrought in precious metals. Most intriguing were the innumerable plates of bronze, brass and gold. Many bore strange inscriptions and hieroglyphic symbols. Others were replete with the engravings of incongruous animals--elephants, snakes, jaguars, wild beasts of every kind. The images of horse-drawn chariots were clearly etched into metal, calling to mind Juan Moricz's description of "a Roman chariot" in his underground chamber. “We photographed a plate inscribed with representations of what appeared to be Egypt's steppyramid.
Still more plates contained artwork with what looked like Assyrian or Babylonian symbols. We grew dizzy with the gleaming opulence and historical anomaly all around us. Newell Parkin, a banker from Bountiful, Utah, Dr. Paul Cheeseman, Wayne Hamby, an undergraduate student from Brigham Young University, D. Craig Anderson, a Utah State University Research Associate, who acted as our interpreter, and I spent the afternoon amid these otherworldly splendors. In all my travels throughout the world, my visit to the Crespi Collection was to be their crowning experience. “We asked Father Crespi how he came by such marvelous things. He said he headed the local parish for over fifty years after studying at Italy's University In Milan, where the subject of archaeology had caught his interest. Following graduation, he became a priest and was assigned to Ecuador's beautiful city of Cuenca to work among the Indians. In time, he came to love them. Moreover, in South America he had opportunity to further his archaeological interests. To his great surprise and delight, the religious celebrations over which he presided brought a host of Indians bearing gifts to the kindly man who performed baptisms and marriages and was their friend in trouble. Aware of Father Crespi's enthusiasm for archaeology, the grateful Indians brought him ancient objects long hidden in the jungle. Soon, his collection steadily increased until, after fifty years, it filled many rooms.
“A museum was constructed to house these remarkable gifts, but a few years before our visit it was
seriously damaged by an arsonist's fire. Father Crespi managed to salvage three full rooms of the relics, one
of relatively obscure and unimportant tributes, another filled with items of curious antiquity, but the last
was a treasury of gold artifacts. Residing high among the Andes mountains in an obscure village, the old
man had no interest in fame or fortune. Few travelers knew of his collection and even fewer scientists. He
was a private person with a big heart and a deep interest in the past. ‘Where and how do the Indians find these incredible things.,’ we wondered. ‘Oh, they just get them from the caves and subterranean chambers in the jungles,’ he answered in an offhand manner. 'There are over 200 kilo-meters of tunnels starting here in Cuenca. They run from the mountains down to the eastern lowlands near the Amazon." Wayne Hamby, an assistant to Cheeseman, spent a few more days with Father Crespi to catalogue and photograph the entire collection. His results went into the files of Dr. Cheeseman, who died after his retirement from the faculty of Brigham Young University. “Two years following our visit to the kindly priest, I returned to Cuenca with Ben Holbrook, our two young sons, and a pair of Ecuadoran LDS missionaries acting as interpreters. We were greeted by a young priest, who informed us that Carlos Crespi had passed away in January 1980, and his collection was no longer available for public view. In spite of my efforts to convince him that we had traveled a long distance to view the relics, he stubbornly refused to allow us to see the treasures. He insisted that the room with the artifacts could not be shown on orders from the Vatican. To my knowledge, no one from the outside world has seen the treasure since the death of the old Padre. “. Mr. Barton heard rumors that much of the treasure had been shipped to Rome to the Vatican. Richard Wingate a Florida based explorer and writer visited Father Crespi four times during the mid to late 1970’s and photographed the extensive artifact collection. He says this concerning his visits: IN A DUSTY, cramped shed on the side porch of the Church of Maria Auxiliadora in Cuenca, Ecuador, lies the most valuable archaeological treasure on earth. More than one million dollars worth of dazzling gold is cached here, and much silver, yet the hard money value of this forgotten hoard is not its principal worth. There are ancient artifacts identified as Assyrian, Egyptian, Chinese, and African so perfect in workmanship and beauty that any museum director would regard them as first-class acquisitions. Since this treasure is the strangest collection of ancient archaeological objects in existence, its value lies in the historical questions it poses, and demands answers to. Yet it is unknown to historians and deliberately neglected in the journals of orthodox archaeology….
‘Ah,’ the priest said, ‘enough flattery, then, let's take a look.' Without ceremony, he forced a key
into an ancient, rusty padlock and opened the rickety door to his museum. He touched two bare wires
together and a watery yellow light went on. Father Crespi was smiling like a man with a very remarkable
secret. I was skeptical of the reports I had heard about this place, but now that cautious attitude gave' way to unabashed astonishment. Stacked against the far wall were golden mummy cases in the quasi-Egyptian
style with a black, baked-enamel finish. A dozen complete sets of gleaming, golden ceremonial armor,
beaten-gold Chaldean-style helmets, and golden inscribed plaques were piled haphazardly on the floor.
These dazzling memoirs of lost times were scattered among an array of beautifully carved Pacific Oceanic
and African-styled wooden statues, shields of a rich, red copper, pottery, canes, sheets, and rolls of silvercolored metal, and strange, unidentifiable gears, pipes, and wheels which might have been parts to long-lost technological systems. Rolls of intricately figured sheet metal stood haphazardly piled around the shed. The priest explained that it had been torn off the interior walls of long abandoned, vine-choked buildings in the inaccessible eastern jungle. The Indian artifact hunters bring this wallpaper in three different metals: gold, a metallurgically unique, untarnished silver, and an unknown alloy with the appearance of shiny aluminum. Every square inch of the peculiar sheet metal is decorated with intricate designs, some of them depicting long-forgotten ceremonial occasions and some of them humorous and cartoon like. The rolls come in heights that vary, for the most part, from eight to twelve feet, and they are often fifteen to thirty feet long. These lengths are composed of many individual four-foot sheets which have been artfully riveted together. He showed me a dozen bronze plaques. Seemingly, they were among his favorite acquisitions. The illustrations borne by the plaques made me catch my breath. Images of Egyptian princesses and Assyrian gods stared at me with a severity undiminished by the passage of centuries. One of the plaques bore the image of a Caucasian man writing linear script with a quill pen. Linear script? A quill pen? Needless to say, the Andes Indians did not have a written language when the Spanish arrived, let alone a tool for writing. There were reportedly fifty-six solid gold plaques originally, but after a disastrous arson in 1962, which local political fanatics claimed credit for, Father Crespi had molds made by a local casket maker and the best dozen of his precious plaques were duplicated in coffinhandle
bronze. The original gold plaques lie safe today in a bank vault. “Father Crespi granted me permission to take photographs. Since most museums jealously guard their treasures from photographers, the priest's open generosity won me over. Lack of space inside the shed forced me to set up my tripod and camera in the sunlit outer courtyard. The priest himself brought his treasures out for me to record on film. Hours passed, and the usual, afternoon equatorial winter rain began. The Father was growing tired. We quit for the day. I had exposed over ten rolls of film, taken more than three hundred pictures, and covered only a tiny percentage of the seventy thousand artifacts which filled the museum's three rooms to their ceilings. 
“As it turned out, I made not one but three additional visits to Father Crespi in Cuenca, exposed over three thousand frames, and I still have captured only 2 percent of the collection on film. Between my second and third trips, the Padre's treasure hunters apparently hit upon a fresh cache in the jungle caves. So many new pieces arrived during this period that I was forced to climb over heaps of newly unearthed objects in order to get to certain items that I particularly wanted to photograph. I found myself in the classic onestep-
forward, two-steps-back situation, for new articles were arriving more rapidly than I could take pictures
of the old! “One of the reasons for my continued efforts was my apprehension for Carlo Crespi's advanced age. He was born on April 29, 1891, and when he dies, the integrity of the collection is by no means ssured. It might be saved and protected by benevolent church authorities, but an auction to private dealers seems just as likely. If the priceless museum is somehow disbursed before modern techniques of dating and evaluation can be applied to its artifacts, a great chance for the reevaluation of the history of the Western hemisphere will have been missed. “In spite of the plethora of startling material in his museum, Father Crespi regrets that he missed acquiring most of the 'treasure unearthed in the jungle, including most of the best articles, because he simply couldn't match prices with other bidders.Maintaining the jungle museum has proven a difficult adventure for the Father in other ways as well. The collection weathered an arson fire in 1962 which melted many objects, burned others, and substantially diminished its value. Another fire occurred in 1974. There have also been instances of outright theft. A few archaeologists who have heard of the collection are prone to an understandable condescension, because the shedful of artifacts poses a violent offense to the procedural r~es of their fraternity. The articles in the trove have been discovered in sloppy, unsupervised, surreptitious digs by wholly untrained J ivaro Indian diggers. Crespi is not even an accredited museum curator. Although not an uneducated man~he holds a master’s degree in anthropology from a Milan, Italy, university. The priest has no formal archaeological training, and the time he gives to his immense collection is stolen from a heavy schedule of parish duties, as I saw on my visits. Crespi, furthermore, occasionally expresses a salty indifference to the judgment of the accepted experts. The classification system of his museum is best described as chaotic. It does not make highly publicized acquisitions at blue ribbon auctions, for the Father wouldn't have the money, even if he had the need. Nor does it have advanced dating machinery, assistant curators, guards, guides, set hours, or any of the other appurtenances of the respectable, contemporary museum. And yet the affection in which the Padre is held by his Shuara (Jivaro) collectors, has made it possible for him to accumulate the most significant single assemblage of South American artifacts anywhere. “Carlo Crespi was raised in the prosperous northern Italian -city of Milan, where, after a youth spent with a comfortably wealthy family, he decided to join the Salesian Fathers. More than fifty-five years ago this missionary order sent Father Crespi to South America. Ever since that voyage, Father Crespi has lived a life of voluntary poverty, sleeping on the floors of native huts with only a single blanket, and carelessly eating poor but lovingly offered food. He has cared for the people, listened to their stories of fabulous deepjungle temples, explored the treasure-filled Tayos caves, and stubbornly provided a museum for the strange artifacts of the country… When Father Crespi and his Indian diggers tell of the places where they find their artifacts, they described giant pyramids, immense, deserted cities, fantastic sacred tunnels, and caves. The cities, they say, still shine with a mysterious, cool bluish light when the sun goes down. The tunnels are reportedly large enough to drive a locomotive through. They have cut-stone entrances and walls which, by native account, are as smooth as glass. And it is these tunnels, at least according to the Indian explorers, that hold the bulk of the material being offered to the Maria Auxiliadora museum and to other collectors. It is a fantastic tale, but when one sees the evidence, the thousands of gold treasuresd trinkets, the story of a vast tunnel system become nealy plausible. “Although legend tells of this tunnel network honeycombing all of Ecuador and Peru, the only part of it that has, to my knowledge, been documented, is located in the very dangerous Jivaro country, between the Santiago and Morona rivers, near Tayos. Unfortunately, this area is decidedly out of bounds for the foreign adventurer. The local Indians have killed at least four inquisitive outsiders in the last two years. Yet the tunnels of the Shuara tribes (Jivaro) have been photographed. A naturalized Ecuadorian named Juan Moricz took several rolls of high-quality pictures, verified in this way the accounts the natives have been giving Crespi, and subsequently lay legal claim to the entire tunnel network. His grandiose claim was denied by the courts, but his photographs cannot be. “ Richard Wingate, in Lost Outpost of Atlantis, offers evidence for the authenticity of the bulk of the Crespi Collection. He writes: “Similar epigraphy in Father Crespi’s collection was also labeled a clumsy Indian fraud until better trained scholars discovered some inscriptions were written in classically pure Egyptian hieroglyphics, Egyptian hieratic, Libyan and Celt-Iberian, and Punic.” Concerning the large numbers of brass and bronze high-pressure air pipes: Such pipes
simply can’t be purchased in Ecuador today…We were told by importers that we would have to special order pipes of these specifications from Germany, and the cost would be substantial. These technological artifacts, of course, don’t fetch high prices on the market.” Concerning artifacts that are made of pure or alloyed gold: The native gold panners “hardly have the leisure or the inclination tofake heavy artifacts of gold and then sell them for Crespi Gold Plate With Hieroglyphic Writing Note Squares For Separation A Pre-Inca Wall Showing Serpent Portrayal less than the bullion value of the precious metal.” The “heavy mineral crust enamel coating” of many artifacts indicates that they were “buried under searing volcanic heat.” Concerning sophisticated artifacts, like the Phoenician calendars, the golden Middle Eastern helmets, the golden armor, and the golden plaques: these “would bring hundreds of thousands of dollars and perhaps millions on the private market; to suggest that a sophisticated forger unloaded them on the priest for a low price is to deny the greed that motivates forgery!”Concerning a cast steel shield: “Steel casting is beyond the metallurgical capacity of present day Tayos Indians.”

Fakes
Regarding fakes (which Crespi knowingly purchases in his casual, humanitarian style, at the same
time chiding the seller): “The modern solder and hacksaw marks give them away.”

Hybrid real-fakes
Far from creating fakes in order to reap high profits, some of the Indian diggers in Ecuador
have cut up and reshaped genuinely ancient and priceless materials in order to get any kind of
price at all for it. We have mentioned earlier the ebony column…carved with the Ecuadorian
national seal and decorated with gold cut from a sheet of mysterious ancient wallpaper.”
“Obviously genuine copper ‘radiators’ were redecorated by Indian discoverers.”
“Heavy brass ‘bass viol’ a real-fake soldered together from original thick wall
sheeting.” The brass sheet metal is genuine and very old, but the instrument was crafted by
modern forgers. One can see where existing designs on the brass sheets were cut through in the
manufacture of the article. “Genuine silver wrapped gold trimmed elephant. Yet decorated with modern
brass thumb tacks.” “Bottom of tin can. Clumsily fire blackened to simulate real volcanic mineral
patina on genuine objects. The carbon on this olive oil can be rubbed off on a sheet of paper. The
black patina on most of Crespi’s material is enameled to the metal.”
In summary: “The genuine green porphyry patina on many of the articles,…the enormous
quantities of cheaply bought gold articles, the metallurgical uniqueness of some of the artifacts
(such as the platinum nose cone and the radiators), the Mid-eastern artistic motifs, and the
abundance of art ides for which little or no market exists (such as the air pipes and the
‘wallpaper’) pose difficult questions for those who carelessly write the collection off as a hoax.”

References
1. Eric Van Daniken Gold of The Gods (1973)
2. J. Golden Barton The Lost Gold of Ancient Ecuador, Ancient American Vol. 4 Number 25, 1998
3. Richard Wingate Lost Outpost of Atlantis 1980 Everest House Publishing Company
4. Wayne Hamby Voices From The Dust 1977 Osmond Publishing Company

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