Doggerland



Video, links, articoli in Italiano e Inglese su Doggerland: un altro “continente perduto”

Videos, links, articles in Italian and English on Doggerland: another "lost continent"



Index

- Italiano -
Laura Spinney
Alla ricerca di Doggerland, l'Atlantide del Mare del Nord
Sabina Marineo
Doggerland, il paradiso scomparso
Gli Iperborei e il giardino delle Esperidi

- English -
www.bbc.com
Hidden Doggerland underworld uncovered in North Sea
Megan Lane
The moment Britain became an island
Vincent  Gaffney
Mapping Doggerland: the Mesolithic Landscapes of the Southern North Sea
 Reclaiming Doggerland

- Video -
  
Alla ricerca di Doggerland, l'Atlantide del Mare del Nord
(Laura Spinney http://www.nationalgeographic.it/)
Durante l'ultima glaciazione, una parte del continente europeo collegava Inghilterra a Germania e Danimarca. Poi, quando il livello del mare si alzò, scomparve sott'acqua per sempre.
Quando dal fondo del Mare del Nord iniziarono a venir fuori le prime tracce di un mondo scomparso, nessuno voleva crederci.
Le prove cominciarono ad apparire circa un secolo e mezzo fa, quando lungo la costa olandese si cominciò a praticare su vasta scala la tecnica della pesca a strascico. I pescatori trascinavano sul fondo marino reti cui venivano applicati dei pesi, ritirandole piene di sogliole, platesse e altro pesce di fondale. Ma a volte capitava che dalle reti, insieme al pesce, si rovesciasse sul ponte delle imbarcazioni una grossa zanna, oppure i resti di un uro, di un rinoceronte lanoso o di qualche altro animale estinto. I pescatori erano sconvolti da questi ritrovamenti incomprensibili, e tutto quello che non sapevano come spiegarsi lo ributtavano in mare.
A distanza di qualche generazione, un intraprendente paleontologo dilettante, Dick Mol, riuscì a convincere i pescatori a portargli quello che trovavano e a prendere nota delle coordinate dei punti in cui avvenivano i ritrovamenti. Nel 1985 un capitano portò a Mol una mandibola umana perfettamente conservata e completa di molari consumati dall'uso. Con l'aiuto dell'amico Jan Glimmerveen, anche lui appassionato di paleontologia, Mol fece sottoporre l'osso alla datazione radiocarbonica. Venne fuori che era di 9.500 anni fa, e quindi che l'individuo cui apparteneva era vissuto durante il Mesolitico, che in Nord Europa ebbe inizio al termine dell'ultima glaciazione, all'incirca 12.000 anni fa, e durò fino all'avvento dell'agricoltura, 6.000 anni dopo. "Pensiamo che provenga da una sepoltura che era rimasta indisturbata dal momento in cui quel mondo era scomparso sotto le onde, più o meno 8.000 anni fa," dice Glimmerveen.
La storia di questa terra scomparsa comincia con il ritiro dei ghiacci. Diciottomila anni fa il livello dei mari intorno all'Europa del Nord era di circa 122 metri più basso di oggi. Allora la Gran Bretagna non era un'isola, ma la propaggine nord-occidentale disabitata del continente europeo, e tra lei e il resto del continente si stendeva una tundra ghiacciata. Man mano che la Terra si riscaldava e i ghiacci si ritiravano, cervidi, uri e cinghiali si dirigevano a nord o a ovest, seguiti dagli uomini che li cacciavano. Provenendo dalle regioni montuose di quella che oggi è l'Europa continentale, si ritrovavano in una vasta depressione pianeggiante.
Gli archeologi chiamano questa depressione Doggerland, dal nome di una estesa secca del Mare del Nord chiamata Dogger Bank, e che occasionalmente crea problemi alla navigazione. Un tempo considerata una semplice striscia di terra in gran parte disabitata che collegava l'Europa continentale e la Gran Bretagna odierne  -  un luogo di passaggio verso altri luoghi  -  oggi si ritiene che il Doggerland sia stato colonizzato, forse anche in misura consistente, dai popoli del Mesolitico, fin quando, migliaia di anni dopo, l'inesorabile avanzare del mare non li costrinse a spostarsi. Ne seguì un periodo di sconvolgimenti climatici e sociali che sarebbe durato fino alla fine del Mesolitico, quando ormai l'Europa aveva perduto una parte sostanziosa della sua massa territoriale e appariva più o meno come è oggi.
Molti studiosi sono giunti alla conclusione che Doggerland sia la chiave per comprendere il Mesolitico nel Nord Europa, e che il Mesolitico a sua volta sia un periodo da cui noi  -  che viviamo un'altra epoca di cambiamenti climatici - abbiamo qualcosa da imparare. Se oggi sappiamo con una certa esattezza come era fatto quel mondo, il merito va a un gruppo di esperti di archeologia del paesaggio dell'Università di Birmingham, guidato da Vince Gaffney. Basandosi sui dati delle prospezioni sismiche raccolti soprattutto dalle società petrolifere che operano nel Mare del Nord, Gaffney e colleghi hanno ricostruito in formato digitale quasi 46.620 chilometri quadrati del territorio sommerso  -  una superficie più vasta di quella dei Paesi Bassi.
All'IBM Visual and Spatial Technology Centre dell'università, di cui è direttore, Gaffney proietta su grandi schermi a colori le immagini di questa terra incognita. Se la mappa fosse più estesa, si vedrebbero il Reno e il Tamigi confluire a sud nel Channel River, un fiume che scorreva dove oggi c'è la Manica. Gaffney passa con la mano sopra altri sistemi fluviali, altrettanto vasti, che non hanno ancora un nome. Nel clima dell'epoca  -  che doveva essere di qualche grado più caldo di quello di oggi  -  i contorni sullo schermo si traducono in morbide colline ondulate, vallate coperte di boschi, lussurreggianti paludi e lagune. "Per i cacciatori-raccoglitori era un paradiso," commenta Gaffney.
La pubblicazione, nel 2007, della prima sezione di questa mappa ha dato modo agli archeologi di "vedere" per la prima volta il mondo del Mesolitico, e di individuare anche l'eventuale ubicazione degli insediamenti, con la speranza di localizzarli e potervi effettuare scavi. I costi dell'archeologia subacquea e la scarsa visibilità dell'acqua nel Mare del Nord hanno reso questi scavi impossibili, almeno per il momento. Ma gli archeologi hanno a disposizione altri metodi per scoprire chi erano gli abitanti del Doggerland, e come reagirono all'inesorabile avanzata del mare sulla loro terra.
In primo luogo ci sono i preziosi reperti tirati su dalle reti dei pescatori. Oltre alla mandibola umana, Glimmerveen ha raccolto più di un centinaio di altri reperti e manufatti - ossa di animali con chiari segni di macellazione e utensili ricavati da ossa oppure da palchi di cervidi, tra cui un'ascia decorata con un motivo a zig-zag. Dato che lui possiede le coordinate di questi ritrovamenti, e dato che in genere gli oggetti che si trovano sul fondo marino non si spostano molto da dove li ha liberati il processo erosivo, Glimmerveen può essere certo che molti di essi provengono da una specifica regione della parte meridionale del Mare del Nord, che gli olandesi chiamano De Stekels (le Spine) per via dei ripidi rilievi da cui è caratterizzato il fondale. "Il sito, o i siti, dovevano trovarsi nelle vicinanze di un sistema fluviale," dice Glimmerveen. "Forse queste popolazioni vivevano su dune in riva ai fiumi."
Un altro sistema per conoscere gli abitanti del Doggerland è quello di portare alla luce siti coevi ma ubicati in fondali bassi o nella zona intertidale. Tra gli anni '70 e gli anni '80 del secolo scorso, nel sito di Tybrind Vig, poche centinaia di metri al largo della costa di un'isola danese del Mar Baltico, sono state trovate le tracce di una civiltà del tardo Mesolitico dedita alla pesca e sorprendentemente avanzata. I reperti includono delle pagaie da piroga finemente decorate e diverse piroghe dalla forma lunga e slanciata, tra cui una di oltre nove metri. In tempi più recenti, Harald Lübke, del Centro per l'Archeologia Baltica e Scandinava di Schleswig, in Germania, ha portato alla luce insieme ai colleghi una serie di insediamenti sommersi nella Baia di Wismar, sulla costa tedesca del Baltico, che datano tra gli 8.800 e i 5.500 anni fa. Questi siti documentano chiaramente il passaggio dal pesce d'acqua dolce alle specie marine avvenuto nella dieta dei loro abitanti man mano che l'innalzamento del livello del mare trasformava nel corso dei secoli il loro ambiente da un entroterra di laghi e foreste a una distesa di paludi ricoperte di canneti, quindi a una rete di fiordi e infine alla baia aperta che è oggi.
Una simile metamorfosi ebbe luogo anche a Goldcliff, in Galles, sull'estuario del fiume Severn, dove l'archeologo Martin Bell, dell'Università di Reading, effettua scavi da ventun anni insieme al suo gruppo di lavoro. Inizialmente nel Mesolitico il Severn era contenuto da una stretta valle incisa. Ma con il progressivo aumento del livello del mare il fiume  -  forse nell'arco di appena un secolo  -  finì per straripare fuori dalla valle, espandendosi fino a disegnare i contorni dell'attuale estuario, che a un certo punto, nel corso di questo processo, deve essere stato punteggiato di isole.
Un giorno d'agosto, a Goldcliff, durante una marea eccezionalmente bassa, seguo Bell e i colleghi fino alla parte di costa che la marea ha scoperto, una distesa fangosa in cui i piedi affondano a ogni passo, solcata da piccoli rivoli d'acqua e costellata da grossi tronchi neri di querce preistoriche che giacciono intatti nel fango. Abbiamo meno di due ore di tempo per lavorare prima che l'acqua faccia ritorno. Giungiamo a un piccolo rilievo che, 8.000 anni fa, costituiva la riva di un isolotto. Un componente del gruppo gli dirige contro un getto d'acqua ad alta pressione, e a un tratto ecco venire alla luce una sequenza di antichissime orme  -  in tutto trentanove, lasciate da tre o quattro individui e dirette in entrambe le direzioni lungo l'antica riva. "Forse si erano allontanati dal loro accampamento per andare a controllare le trappole per il pesce in un canale vicino," dice Bell.
L'archeologo è convinto che intorno all'estuario ci siano sempre stati, in ogni periodo storico,  numerosi accampamenti, e che ciascuno fosse abitato da un gruppo familiare esteso, composto forse da una decina di individui. Gli accampamenti non erano occupati permanentemente. È probabile che in occasione di maree particolarmente alte i più vecchi venissero sommersi, infatti risulta chiaramente che venivano occupati solo stagionalmente e che, ogni volta che vi facevano ritorno, gli occupanti montavano l'accampamento un po' più in alto sul pendio. La cosa straordinaria è che continuavano a tornare nel corso di secoli e forse di millenni, ritrovando sempre la strada in un paesaggio che mutava tanto che era impossibile riconoscerlo. Questi popoli devono essere stati testimoni dell'inondazione e della morte della foresta di querce. "Deve esserci stato un tempo in cui dalla palude salata sporgevano colossali tronchi di quercia morti," immagina Bell. "Deve essere stato un paesaggio piuttosto strano."
Estate e autunno dovevano essere periodi d'abbondanza lungo la costa, con i pascoli delle paludi che attiravano gli animali selvatici da cacciare, il mare pieno di pesce, e nocciole e bacche in quantità. In altri periodi i gruppi si muovevano verso zone più elevate, probabilmente risalendo le valli degli affluenti del Severn. In una cultura esclusivamente orale come la loro, gli individui più anziani erano con ogni probabilità depositari indispensabili della conoscenza del territorio, in grado per esempio di interpretare gli schemi migratori degli uccelli, e quindi di comunicare al proprio gruppo quando era tempo di spostarsi sulla costa oppure di dirigersi verso gli altipiani  -  decisioni da cui dipendeva la loro sopravvivenza.
Ritrovamenti con una maggiore concentrazione di manufatti fanno pensare che i popoli del Mesolitico, come, in epoca posteriore, i cacciatori-raccoglitori del Nord America, si radunassero annualmente in occasione di eventi sociali  -  probabilmente all'inizio dell'autunno, quando arrivavano le foche e i salmoni risalivano i fiumi. Nella Gran Bretagna occidentale questi raduni avvenivano in cima alle scogliere, da dove si dominavano le zone di caccia delle foche. Probabilmente raduni come questi davano modo ai giovani, uomini e donne, dei vari gruppi di trovare un compagno, e a ciascun gruppo di raccogliere informazioni su sistemi fluviali al di fuori dei confini dei rispettivi territori  -  informazioni che assumevano per questi popoli un'importanza cruciale man mano che il mare continuava a sconvolgere il loro ambiente.
Il livello del mare si alzava a una rapidità compresa tra uno e due metri ogni cento anni, ma data la topografia variabile del territorio le inondazioni non devono essere state uniformi. In regioni pianeggianti come l'attuale East Anglia un innalzamento di due metri avrebbe fatto arretrare la costa di chilometri; in zone più elevate meno. Nella regione depressa del Doggerland l'avanzata del mare trasformò laghi interni in estuari. La ricostruzione digitale di Gaffney mostra che una fossa in particolare, l'Outer Silver Pit, ospita vasti banchi sabbiosi che possono essere stati creati soltanto da forti correnti di marea. A un certo punto queste correnti devono aver reso pericoloso l'attraversamento su piroghe ricavate da tronchi, finendo probabilmente col creare una barriera permanente che avrà impedito l'accesso a terreni di caccia fino a quel momento familiari.
Come hanno fatto i cacciatori del Mesolitico, che erano così in sintonia con il ritmo delle stagioni, ad adattarsi quando il loro mondo ha cominciato a svanire inghiottito dal mare? Jim Leary, archeologo dell'English Heritage, ha setacciato tutta la letteratura etnografica in cerca di parallelismi con gli Inuit o altre società moderne di cacciatori-raccoglitori minacciate dai cambiamenti climatici. Per quelli che seppero sfruttare l'avanzata del mare, imparando a costruire imbarcazioni o a pescare, questa nuova risorsa deve essere stata una benedizione  -  almeno per un po'. Ma poi deve essere arrivato un punto critico in cui la perdita di territorio deve aver assunto dimensioni tali da neutralizzare tutti i benefici iniziali. Sarà arrivato un momento in cui gli anziani, quelli che Leary chiama "miniere di conoscenza", non saranno più stati in grado di leggere le sottili variazioni stagionali del territorio e aiutare così il gruppo a pianificare la caccia. Tagliate fuori dai loro terreni tradizionali di caccia, pesca e sepoltura, queste popolazioni devono aver provato un profondo senso di smarrimento, dice Leary, "come gli Inuit che non possono tornare a casa perché la banchisa si scioglie."
"Si saranno verificati grossi cambiamenti demografici," ipotizza Clive Waddington dell'Archaeological Research Services Ltd, un gruppo di ricerca che ha sede nel Derbyshire. "È probabile che le popolazioni che occupavano la regione che oggi è sommersa dal Mare del Nord si siano allontanate molto rapidamente." Una parte di esse diretta verso la Gran Bretagna. Ad Howick, nel Northumberland, sulle scogliere che delimitano la costa nord-orientale del paese e che perciò devono essere state le prime alture incontrate dalle popolazioni dislocate, il gruppo di archeologi di Waddington ha rinvenuto i resti di un'abitazione che è stata ricostruita tre volte nell'arco di centocinquanta anni. Questa capanna, una delle più antiche testimonianze di vita sedentaria in Gran Bretagna, risale all'incirca al 7.900 avanti Cristo. Waddington ne interpreta la ripetuta occupazione e ricostruzione come il segno di un crescente senso di territorialità: gli abitanti del luogo che difendevano il loro pezzo di terra dalle ondate di profughi del Doggerland.
"Sappiamo quanto fosse importante per la sopravvivenza di questi popoli disporre di zone di pesca," dice Anders Fischer, un archeologo dell'Agenzia Danese per la Cultura di Copenhagen. "Se ogni generazione vedeva scomparire le zone di pesca migliori, ne doveva trovare di nuove, e questo spesso significava entrare in competizione con i gruppi limitrofi. In società poco sviluppate, dove non ci sono autorità a gestire i conflitti, questa competizione probabilmente condurrebbe alla violenza."
Migrazione territorialità, conflitto: modi stressanti di adattarsi alle nuove circostanze,  ma pur sempre tentativi di adattamento. Venne però il momento in cui il mare esaurì la capacità di sopravvivenza degli abitanti del Doggerland. All'incirca 8.200 anni fa, dopo millenni di progressivo aumento del livello del mare, il rilascio di un'immensa massa d'acqua di disgelo da un gigantesco lago glaciale che occupava una parte consistente del Nord America, il Lago Agassiz, fece innalzare di colpo il livello del mare di più di 60 centimetri. Questo afflusso di acqua gelida, rallentando la circolazione dell'acqua calda nell'Atlantico del Nord, determinò un brusco crollo delle temperature. Venti glaciali presero a flagellare quel che era rimasto delle coste del Doggerland. Come se non fosse bastato questo, più o meno nello stesso periodo al largo delle coste della Norvegia ebbe luogo una frana sottomarina, nota come frana di Storegga, che scatenò uno tsunami da cui furono investite le coste dell'Europa settentrionale.
È stato lo tsunami di Storegga a dare il colpo di grazia al Doggerland, o la regione era già stata inghiottita dal Mare del Nord? Gli studiosi ancora non lo sanno, ma sanno per certo che da allora l'innalzamento del livello dei mari ha subito un rallentamento. In seguito, circa 6.000 anni fa, sulle coste ricche di boschi delle isole britanniche approdò un altro popolo proveniente da sud. Arrivarono su imbarcazioni, portando pecore, bovini e cereali. Oggi i discendenti di quei primi agricoltori del Neolitico, dotati di tecnologie sofisticatissime di cui i popoli del Mesolitico non disponevano, dovranno lottare ancora contro il mare che avanza.

Doggerland, il paradiso scomparso
(Sabina Marineo http://storia-controstoria.org/)
Nell’Europa del nord prima del diluvio
Doggerland: un nome ancora poco conosciuto. Il nome di una terra scomparsa. Da molti decenni, ormai, le reti a strascico dei pescatori del Mare del Nord portano a galla ossa di uri, mammut, renne, creature preistoriche e strani oggetti che, in seguito ad attente analisi, si sono rivelati essere delle armi arcaiche.
Reperti antichissimi. Più antichi delle piramidi d’Egitto e delle ziqqurat sumere. Una mandibola umana contava ben 9500 anni d’età. A che cultura appartengono?
I pescatori raccontavano che talvolta, con la bassa marea, si vedevano tronchi d’albero emergere dalla melma del Mare del Nord, sparsi qua e là in una zona vastissima che, partendo dalla Danimarca, la Germania e l’Olanda, giungeva sino alla costa della Gran Bretagna. Con il loro tipico senso dell’umorismo, gli inglesi chiamavano queste distese di fango inframmezzate da ceppi millenari “le foreste di Noè”.
Alla fine del XIX secolo un paleobotanico inglese, Clement Reid, cominciò a studiare i resti pescati e poi, nel 1931, ci fu una svolta sorprendente: le reti portarono alla superficie un pezzo di torba in cui era intrappolato un arpione di osso intagliato della lunghezza di 21,6 cm. Un’arma realizzata dalla mano dell’uomo che l’analisi del C-14 ha datato nell’11.740 a.C., un’epoca ancor più antica del favoloso complesso di Göbekli Tepe.

Doggerland Project
Bryony Coles, una docente di Archeologia dell’Università di Exeter, pubblicò nel 1998 i risultati delle ricerche di quello che fu da lei chiamato il Doggerland Project. Fu così che si iniziò a parlare del continente sommerso e finalmente, nell’agosto 2011, anche il governo tedesco ha incaricato il Schiffahrtsmuseum di Bremerhaven di svolgere una ricerca archeologica sistematica del Mare del Nord per evitare che importanti reperti vadano perduti.
Nel frattempo lo studioso Vince Gaffney dell’Università di Birmingham e il suo team dell’istituto VISTA (Visual and Spatial Technology Center) hanno portato avanti il progetto “Mapping Doggerland”, ricostruendo il modello virtuale della terra scomparsa. Un territorio di pianura che abbracciava circa 23.000 chilometri quadrati, costellato di fiumi e laghi, con un mare interno di acqua dolce. Attraversandolo in un’epoca remota, si poteva andare a piedi dalla Danimarca all’Inghilterra.
Un territorio molto ampio, che oggi è chiamato Doggerland: ma da dove viene questo nome? “Doggerbank” è detta una vasta zona di secca, un banco di sabbia che si estende a circa 100 km dalla costa orientale della Gran Bretagna e a circa 125 km dalla costa ovest della Danimarca, proprio nella zona in cui è stato individuato il territorio sommerso. Per questo motivo l’archeologa Coles battezzò la nuova terra nascosta dal mare Doggerland.
Intanto gli studi continuano. Non soltanto ci si è potuti fare un’idea sull’epoca in cui la terra sommersa fiorì, sulle sue dimensioni e la topografia, ma anche sulle cause della sua sparizione, che deve essere avvenuta circa 8200 anni fa. Come accadde la gigantesca catastrofe?
Durante il periodo di riscaldamento globale, all’inizio dell’Olocene (ca. 11.700 anni fa), il livello dei mari cominciò a salire. Questo processo, che continuò per ben due millenni, portò alla rottura dei ghiacci nel continente nordamericano (in quell’epoca era la massa di ghiaccio più estesa del globo) e questo provocò un aumento del livello dei mari di addirittura 120 metri.
Ci furono, quindi, terribili inondazioni su tutti i territori costieri e il Mare del Nord inghiottì gran parte di Doggerland. Solo l’area più alta del continente emergeva dalle acque come un’isola. Inoltre circa 8000 anni fa una formazione rocciosa grande quanto l’Islanda si staccò dalla costa della Norvegia tra Bergen e Trondheim e scivolò nelle profondità marine. Di conseguenza si alzarono onde gigantesche che s’infransero sulle coste delle isole vicine e ne distrussero gran parte.
Tracce della catastrofe naturale sono state trovate nella Scozia orientale, nei pressi di Inverness, dove resti archeologici raccontano che l’onda titanica sembra aver sorpreso un gruppo di persone sedute intorno al fuoco. Anche in Norvegia, nelle isole Shetland e Faeroer, i reperti dicono che delle onde di 20 metri inghiottirono le coste.
Così l’isola di Doggerland scomparve definitivamente e, circa 7000 anni fa, le acque, continuando la loro opera invasiva, finirono per separare la Gran Bretagna e le isole della Danimarca dalla Terraferma.

Doggerland: il paradiso in terra
Eppure prima di essere inghiottita dal mare Doggerland era un territorio fertile dal clima sorprendentemente mite, popolato da uomini e animali, ombreggiato da boschi di betulle e conifere, bagnato da laghi e fiumi che fornivano pesce in abbondanza. Un paradiso dell’Età della pietra.
Secondo la lettura dei reperti pescati dalle acque, il territorio doveva essere abitato da cacciatori raccoglitori. La popolazione viveva in centri stagionali, situati nelle vicinanze del mare e dei fiumi. I cacciatori raccoglitori erano verosimilmente giunti dalle regioni dell’Europa del nord, seguendo le migrazioni di cervi, uri e cinghiali avvenute durante il periodo di riscaldamento globale del clima.
Laura Spinney, giornalista di National Geographic, scrive:
Estate e autunno erano periodi dell’abbondanza. Sul terreno alluvionale pascolavano animali selvatici. C’erano ricche aree di pesca, tutti i tipi di nocciole e bacche. Nell’inverno la popolazione si spostava nei territori più elevati. Siti archeologici con un numero maggiore di artefatti suggerisce che gli uomini si siano riuniti in certe circostanze, magari durante l’autunno, quando le foche si avvicinavano alle coste e i salmoni risalivano i fiumi. In questo modo giovani uomini e donne potevano trovare un partner. Vi erano però anche degli scambi tra popolazioni avvenuti lungo il corso dei fiumi, al di là dei territori da loro occupati. Nel periodo in cui il mare cambiò ulteriormente il paesaggio, queste informazioni divennero di importanza vitale.”
Allorché il livello del mare iniziò ad aumentare con una velocità di due metri al secolo, la popolazione si vide costretta ad abbandonare Doggerland.  Ondate migratorie cominciarono a susseguirsi, la popolazione si muoveva alla ricerca di nuove aree abitabili. Alcuni si stabilirono nelle Isole Britanniche, lungo la costa del nord. Infatti proprio nella zona di Nothumberland  gli archeologi hanno scoperto i resti di un centro abitato che è stato ricostruito per ben tre volte nell’arco di 150 anni e risale al 7900 a.C.
Ed ecco che con la scoperta di Doggerland si affaccia una nuova terra sommersa che potrebbe essere l’Atlantide perduta. L’amenità del territorio dalle pianure verdeggianti interrotte da corsi d’acqua e con un clima all’epoca molto mite  contraddistinguono sia Doggerland che la terra di cui racconta il filosofo greco Platone. Anche il periodo in cui le acque avrebbero inghiottito il paradiso nordico corrisponderebbe grosso modo alla sparizione dell’Atlantide.
E le leggende degli Iperborei raccontano di un popolo che viveva nel lontano Settentrione, all’estremo nord del mondo allora conosciuto. Dalla biblioteca di Apollodoro  giunge l’eco del giardino delle Esperidi con le loro mele d’oro. Un luogo che, secondo lui, deve essere stato proprio lassù, dove Atlante reggeva sulle spalle la volta celeste.
Erodoto e Plinio il Vecchio narrarono che gli Iperborei non erano creature mitiche ma realmente esistenti, prova ne sia che questi abitanti del lontano nord inviavano ogni anno i loro doni ai centri di culto Delfi e Delo. Mi piace pensare che il territorio misterioso di Iperborea, quello che da secoli causa fiumi d’inchiostro, si trovi proprio lì, perduto sotto le acque del Mare del Nord.
Una bella animazione di MARUM (Università di Brema) in lingua tedesca ma con una breve spiegazione mia in italiano.

Gli Iperborei e il giardino delle Esperidi
(Sabina Marineo http://storia-controstoria.org/)
La terra ai confini del mondo
Nel 1953, quando il ricercatore tedesco Jürgen Spanuth scrisse il suo saggio “Das enträtselte Atlantis” (Atlantide svelata), l’esistenza di una terra fertile nel mezzo del Mare del Nord inghiottita dalle acque intorno al 9000- 8000 a.C. era ancora oggetto di speculazioni e accesi dibattiti. I primi ritrovamenti dei pescatori locali, nelle cui reti s’impigliavano antiche ossa e artefatti umani, venivano studiati solamente da pochi interessati.
Oggi sappiamo che Doggerland, il territorio del Mare del Nord sommerso intorno all’8200 a.C., è stato una realtà e mi chiedo che direbbe lui, Jürgen Spanuth, se potesse leggere i risultati degli studi più recenti in merito. Lui, che nel lontano 1953, parlando di Atlantide, scriveva:
“Con sicurezza possiamo dire che la datazione degli avvenimenti fornita da Platone nei suoi dialoghi – 9000 oppure 8000 prima di Solone – è inesatta. In quel periodo, vale a dire nel X o IX millennio prima di Cristo, non esistevano tutte le cose che riporta, in modo dettagliato, la narrazione di Atlantide.”

Atlantide o… Doggerland?
Questo era il punto cruciale. Platone (428/27-348/47 a.C.) collocava Atlantide intorno al 9000 a.C., una datazione che faceva sorridere qualsiasi archeologo, giacché i resti più antichi di culture scomparse, per esempio quelli di Egitto e Sumer, non risalivano di certo a un’epoca tanto remota. Oggi sappiamo però di Doggerland.
E non solo questo. Grazie agli archeologi Peter Benedict e Klaus Schmidt (quest’ultimo è purtroppo recentemente scomparso), sappiamo che nel 9000 a.C. in Turchia una cultura sconosciuta edificò i complessi monumentali di Göbekli Tepe e altri santuari. Templi di pietra con pilastri scolpiti, magnifiche sculture di animali ed esseri umani. Si tratta di una cultura organizzata in un modo molto più complesso di come mai avessimo immaginato queste comunità di cacciatori raccoglitori fino ad oggi. In breve, Göbekli Tepe ha rivoluzionato il nostro modo di capire il Mesolitico.
Alla luce di queste scoperte, è necessario rivedere i miti del passato. Nelle pieghe delle loro leggende potrebbero nascondersi fatti veri, personaggi realmente esistiti che lo spesso strato di polvere dei secoli e millenni ha modellato a suo modo. È questo anche il caso degli Iperborei? La terra del nord in cui si trovava il misterioso giardino delle Esperidi?
Il mito affascina parecchio e, come molte altre leggende, giunge dalla letteratura dell’antica Grecia. Erodoto di Alicarnasso (490/80- 424 a.C.), che Cicerone definì il “padre della Storia”, scrisse riguardo al mito degli Iperborei:
A parlare degli Iperborei è stato Esiodo, anche Omero negli Epigoni, sempre che questo poema sia di Omero.”
 Erodoto voleva dire che si trattava di un mito molto antico, giunto in Grecia con l’arrivo dei Dori, una popolazione le cui origini sono ancora incerte. Anche il filologo Erich Jung pensava che il mito degli Iperborei fosse:
“…un’antichissima saga dei Dori che conservava la memoria delle origini nordeuropee e delle migrazioni dello strato sociale dominante dei Dori nell’Ellade.”
 E lo storico Ernst Sprockhoff  evidenziava il legame degli Iperborei con la divinità greca Apollo che secondo la leggenda, dopo aver soggiornato nei santuari di Delfi e Delo, tornava sempre a far visita agli Iperborei, coloro che abitavano nel Mare del Nord. Secondo Sprockhoff, si trattava di un simbolico ritorno in patria, affinché la memoria del luogo delle origini non andasse perduta e rimanesse ancorata nella tradizione greca.
Vediamo ora diversi elementi legati all’Iperborea che emergono dalle differenti leggende tramandate dai letterati greci.

L’Iperborea del nord: patria di Apollo?
Lassù, in quella terra del nord situata ai confini del mondo allora noto, regnavano i Boreadi, figli di Bora. Esseri umani dall’alta statura, che adempivano anche alla funzione di sacerdoti. Nel giardino delle Esperidi, dove gli alberi producevano mele d’oro, giunse un giorno l’eroe greco Ercole che, tornato in Grecia, portò da quel Paese lontano del Settentrione proprio degli alberi: gli ulivi. E da quel giorno la corona d’ulivo veniva posta sul capo dei vincitori dei giochi olimpici.
Apollo era una divinità di primo piano in Iperborea, e in occasione della grande festa di Apollo arrivavano dalle montagne asiatiche stormi di cigni che volavano in circolo intorno al suo tempio, scendevano sulla terra, e poi intonavano un canto insieme con i musici del tempio. Fetonte, figlio di Apollo, precipitò un giorno nel fiume iperboreo Eridano e scomparve nei flutti. Le sue sorelle piangenti sulle rive furono trasformate in pioppi, le loro lacrime in ambra, l’oro del nord (un tipo di resina fossile). L’amico di Fetonte che si recò sulla riva dell’Eridano a piangere il caro scomparso, fu trasformato invece in un cigno. Teniamo in mente soprattutto questi due elementi: ambra e cigno.
Il poeta Pindaro (522/18-446 a.C.) raccontò in una sua ode che anche l’eroe greco Perseo si era recato in Iperborea. Secondo Pindaro, gli Iperborei erano un popolo eletto che non conosceva la malattia e la morte e onorava le Muse con la danza, la musica e il canto. Le arti del solare Apollo.
Vediamo, dunque, che l’Iperborea era vista dai Greci come una sorta di paradiso nordico delle origini. Un paradiso a cui eroi e dèi, soprattutto Apollo, facevano costantemente ritorno, per mantenere quel legame indissolubile con il passato.
Alle leggende si accompagnano i cenni storici di Erodoto che, evidentemente, si pose diverse domande sull’Iperborea e cercò di rintracciare la tradizione originaria. Innanzitutto lo storico disse che non vi era notizia precisa sulla posizione geografica del Paese, ma che il centro di culto di Apollo situato a Delo riceveva regolarmente dei doni, avvolti nella paglia, dalla terra degli Iperborei.
Questi regali venivano da lontano e passavano, quindi, da un territorio all’altro. Dagli Iperborei agli Sciti, poi all’Adria, ai Dodoni, in Eubea e infine a Delo. In origine furono due vergini iperboree, accompagnate da cinque giovani uomini, ad avere il compito di intraprendere il lungo viaggio per trasportare i regali a Delo. Queste viaggiatrici non fecero più ritorno in patria. Si stabilirono in Grecia, dove restarono sino alla fine della loro vita.
Le due fanciulle iperboree si chiamavano Hyperoke e Laodike e, dopo la loro morte, furono seppellite a Delo con grandi onori e venerate dai giovani del luogo che si tagliavano una ciocca di capelli e andavano a deporla sulle loro tombe. Da allora gli Iperborei decisero di non inviare più dei viaggiatori con i loro doni, ma di spedire piuttosto i regali avvolti nella paglia tramite messi che li facessero passare da un Paese all’altro, sino a raggiungere il santuario del dio.
Ci furono poi altre due vergini iperboree dal nome Arghe  e Opis che non portarono a Delo dei regali, bensì gli dèi stessi. Le fanciulle accompagnarono, infatti, il viaggio di Apollo e Artemide in Grecia. Queste divinità si fermarono ai santuari di Delo, ma il loro culto raggiunse la Ionia e tutte le isole greche. E anche le fanciulle Arghe e Opis morirono nella città santa.
Secondo Erodoto, le tombe di Hyperoke e Laodike si trovavano all’interno del santuario di Artemide, mentre quelle di Arghe e Opis erano situate dietro il tempio della dea. In effetti sono state scoperte a Delo due tombe dell’Epoca del bronzo, le uniche riportate alla luce in questo luogo di culto. Nel V secolo a. C. tutte le sepolture presenti a Delo erano state aperte e i resti dei defunti esumati e poi trasferiti nell’isola Rheneia. Soltanto queste due tombe rimasero in loco, forse per la loro importanza nella tradizione sacra.

La chiave dell’ambra e il canto del cigno
Anche lo storico Diodoro (90-30 a.C.) narrò dell’Iperborea. Secondo il letterato, l’Iperborea era un’isola grande quanto la Sicilia che si trovava nel mare situato oltre la terra dei Celti. (E siamo ancora nel nord.) Questo Paese, scrisse Diodoro, godeva di un clima particolarmente mite ed era molto fertile. Sull’isola nacque Leto, la madre di Apollo. Per questo motivo Apollo veniva venerato in Iperborea più di tutte le altre divinità.
In Iperborea vi era poi un complesso sacro con un tempio di Apollo di forma circolare (forma circolare hanno anche le strutture di Göbekli Tepe), e vicino al tempio si trovava la città intitolata al dio. Molti abitanti si dilettavano a suonare la cetra. Alle informazioni già riportate da Erodoto, lo storico Diodoro aggiunge un dato enigmatico: Apollo visitava l’isola di Iperborea ogni 19 anni, quando le stelle si trovavano di nuovo nella posizione originaria.
Insomma, il nesso principale tra Iperborea e Grecia è, come vediamo, Apollo. Ma chi era Apollo? L’origine del suo nome non appare chiara, mentre gli inizi del suo culto potrebbero essere collocati nell’Asia Minore. Ma la culla originaria di questa divinità della luce e delle arti può trovarsi nell’Europa settentrionale?
Il mito collega alla leggenda di Fetonte, figlio di Apollo e morto nell’Eridano, proprio l’ambra, un prodotto tipico del Mare del Nord. Altro elemento nordico ricorrente è il cigno. Il mito dice che Apollo viaggiava su di un carro trainato da cigni, e il cigno è un uccello che da sempre popola le leggende nordiche. Kyknos, termine greco che indica il cigno, era figlio di Apollo e Thyria.
E qui entra in ballo l’antica leggenda medievale dell’eroe Sceaf, predecessore di Cavalieri del Cigno e ipostasi del dio nordico Njörd, riportata nell’XI secolo dall’inglese Willhelm di Malmesbury :
“Sceaf giunge un giorno sull’isola germanica di Scamptha, di cui parla lo studioso Jordanes nella sua “Historia Goetorum”. Sceaf è quasi un bambino, e dorme in un’imbarcazione priva di remi, la sua testa poggia su di una spiga di frumento. Gli abitanti di Scamptha lo chiamano Sceaf che significa: “manipulus frumenti”. Sceaf diviene più tardi re della città chiamata Slasvic.”
Slasvic è l’antico nome di Schleswig Holstein, una regione della Germania settentrionale, e l’isola di Scamptha potrebbe essere la Scandinavia. Ma da dove giunse Sceaf in Scandinavia? Forse il ragazzino fuggiva dall’Iperborea che, in seguito a catastrofe naturale, era stata sommersa dalle acque? La testa di Sceaf poggiava su una spiga di frumento: sicuramente un simbolo di fertilità della terra da cui era giunto. Più tardi Sceaf si recherà in Gran Bretagna, e lì fonderà i regni di Mercie, Northumberland ed Estanglie.
Anche i superstiti di Doggerland, terra sommersa del Mare del Nord, sarebbero migrati in Northumberland alla ricerca di un nuovo inizio. La regione in cui gli archeologi hanno scoperto i resti di un centro abitato che risale al 7900 a. C.. È possibile che una delle ondate migratorie di queste popolazioni nordiche abbia raggiunto l’Asia Minore e poi la Grecia portando con sé il mito di Apollo?

Hidden Doggerland underworld uncovered in North Sea
(http://www.bbc.com/)
A huge area of land which was swallowed up into the North Sea thousands of years ago has been recreated and put on display by scientists.
Doggerland was an area between Northern Scotland, Denmark and the Channel Islands.
It was believed to have been home to tens of thousands of people before it disappeared underwater.
Now its history has been pieced together by artefacts recovered from the seabed and displayed in London.
The 15-year-project has involved St Andrews, Dundee and Aberdeen universities.
The results are on display at the Royal Society Summer Science Exhibition in London until 8 July.
The story behind Doggerland, a land that was slowly submerged by water between 18,000 BC and 5,500 BC, has been organised by Dr Richard Bates at St Andrews University.
Dr Bates, a geophysicist, said "Doggerland was the real heartland of Europe until sea levels rose to give us the UK coastline of today.
"We have speculated for years on the lost land's existence from bones dredged by fishermen all over the North Sea, but it's only since working with oil companies in the last few years that we have been able to re-create what this lost land looked like.
"When the data was first being processed, I thought it unlikely to give us any useful information, however as more area was covered it revealed a vast and complex landscape.
"We have now been able to model its flora and fauna, build up a picture of the ancient people that lived there and begin to understand some of the dramatic events that subsequently changed the land, including the sea rising and a devastating tsunami."
Ancient tree stumps, flint used by humans and the fossilised remains of a mammoth helped form a picture of how the landscape may have looked.
Researchers also used geophysical modelling of data from oil and gas companies.
Findings suggest a picture of a land with hills and valleys, large swamps and lakes with major rivers dissecting a convoluted coastline.
As the sea rose the hills would have become an isolated archipelago of low islands.
By examining the fossil record (such as pollen grains, microfauna and macrofauna) the researchers could tell what kind of vegetation grew in Doggerland and what animals roamed there.
Using this information, they were able to build up a model of the "carrying capacity" of the land and work out roughly how many humans could have lived there.
The research team is currently investigating more evidence of human behaviour, including possible human burial sites, intriguing standing stones and a mass mammoth grave.

The moment Britain became an island
(Megan Lane BBC News Magazine www.bbc.co.uk)
Ancient Britain was a peninsula until a tsunami flooded its land-links to Europe some 8,000 years ago. Did that wave help shape the national character?
The coastline and landscape of what would become modern Britain began to emerge at the end of the last Ice Age around 10,000 years ago.
What had been a cold, dry tundra on the north-western edge of Europe grew warmer and wetter as the ice caps melted. The Irish Sea, North Sea and the Channel were all dry land, albeit land slowly being submerged as sea levels rose.
But it wasn't until 6,100BC that Britain broke free of mainland Europe for good, during the Mesolithic period - the Middle Stone Age.
It is thought that landslides in Norway - the Storegga Slides - triggered one of the biggest tsunamis ever recorded on Earth when a landlocked sea in the Norwegian trench burst its banks.
The water struck the north-east of Britain with such force it travelled 25 miles (40km) inland, turning low-lying plains into what is now the North Sea, and marshlands to the south into the Channel. Britain became an island nation.
At the time it was home to a fragile and scattered population of about 5,000 hunter-gatherers, descended from the early humans who had followed migrating herds of mammoth and reindeer onto the jagged peninsula.
"The waves would have been maybe as much as 10m (33ft) high," says geologist David Smith, of Oxford University. "Anyone standing out on the mud flats at that time would have been dismembered. The speed [of the water] was just so great."
At Montrose, on the north-east coast of Scotland, Smith has uncovered signs of this long-ago natural disaster. A layer of ancient sand runs through what should be banks of continuous clay - sand washed inland by the inundation.
Relics of these pre-island times are being recovered from under the sea off the Isle of Wight, dating from when the Solent was dry land.
Grooved timbers preserved by the saltwater are thought to be the remains of 8,000-year-old log boats, and point to the site once being a sizable boat-building yard, says Garry Momber, of the Hampshire and Wight Trust for Maritime Archaeology (see video clip below).
The tsunami was a watershed in our history, says archaeologist Neil Oliver, presenter of BBC Two's A History of Ancient Britain.
"The people living in the land that would become Britain had become different. They'd been made different. And at the same time, they'd been made a wee bit special as well."
Being so closely bordered by water meant boat-building and seafaring became a way of life. Many millennia on from the tsunami, the British sailed the ocean waves to find new lands and build an empire.
Its more recent history bristles with naval heroes, sea battles and famous explorers. English, Scottish, Welsh and Irish migrants left their homelands to settle far and wide. And Elizabeth I was not only a notable monarch for being a woman, but for presiding over a famous naval victory, and English forays into New World exploration.
But the idea of England - in particular - being a maritime nation has its roots as much in spin as in reality, says Dr Nigel Rigby, of the National Maritime Museum. An early exponent was the 16th Century writer Richard Hakluyt, who promoted the settlement of North America.
Hakluyt's writings played on the growing desire to seek new territories after the loss of Calais in 1558.
"Hakluyt's Voyages spun the idea that the English had always been stirrers and searchers abroad. But it was not really an island that had started to see a future at sea."
By the time Charles I took the throne, the lure of maritime power had taken hold. "He called his great warship the Sovereign of the Seas. It was a statement of intent," says Rigby.
For hundreds of years, ships, goods and people moved to and from the British Isles. Merchant and naval ships alike were staffed by those from far and wide, some of whom settled in its ports.
But just as Britain could reach out to the world from its safe harbours, so, too, could the world reach in - and this fuelled feelings of vulnerability, says Rigby. If an invader can make it across one's watery defences, the British coastline offers an abundance of places in which to make landfall.
"The 19th Century writer Alfred Thayer Mahan made the point that if you look at the coastline of Britain, it's suited to maritime trade with good harbours. But easy access for trade means it's also vulnerable to attack from the sea.
"In times of national threat, this is a recurring fear. Hence the importance of being able to defeat enemies at sea," says Rigby.
Mahan's writings underlined the sense of Britain as an island nation, defined by its relationship with the sea. This identity was further bolstered by the likes of the novelist Erskine Childers, who wrote The Riddle of the Sands, a spy novel in the early 20th Century about a German plot to invade from across the North Sea.
"The idea of an 'island nation' is something of a cultural construct," says Rigby.
"But in Britain you are never more than 60 miles from the sea. So it's important to be able to defend the coastline, and to be able to make a living from all around that coastline too."
Many believe its island status has also shaped Britain's rather detached attitude to Europe today, which is still often referred to as "the continent".
In the past, historian David Starkey has argued that Henry VIII's break from the Catholic Church in Rome made him the first Eurosceptic.
"In plans for the elaborate coastal defences that Henry commissioned we can see how England no longer defined itself as part of Europe, but as separate from it - a nation apart," he wrote in the Camden New Journal.

"Catholic Europe was now the threat, the launch pad for invasion. In other words Henry was the first Eurosceptic: the xenophobic, insular politics he created have helped to define English history for the past five centuries."

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